2012
domenica
aprile
29

Capalbio (GR) - L'architettura della mia terra

Capalbio

Undici anni dopo la mostra milanese e dieci dopo quella newyorchese che hanno visto il mio ritorno ai fatti di Architettura, nel primo caso a scala cittadina, romana, nel secondo a scala nazionale, italiana, torno in scena portandola ad un pubblico al Frantoio, a Capalbio.

E' passato un po' più di un decennio dal mio esordio artistico e, fino ad allora, mi sono guardato bene dal dipingere architetture. Le ultime (che erano anche le prime dipinte e sono ancora con me) erano per la tesi: 1988, Composizione. Troppo poca era la distanza da quell'amore, troppo calde alcune ferite, troppo vivo il dolore per alcune cose che avevo visto. Avevo preferito andare lontano, nelle colonie d'oltremare, dove all'orizzonte sabbioso ero libero di dare forma di paste o cipolle, galline o figure umane. L'architettura era tornata ad essere muratura, mera pasta pittorica, la mia vita scorreva più serena. Avevo così occultato il ricordo che nelle città, non ci sono solo le forme delle capanne ed è tutto maledettamente più complicato.

Ho dedicato molto di quegli anni all'architettura finché non mi sono accorto che quando si gira intorno ad una preda da cui si è predati, facilmente si finisce per azzannare ed essere azzannati. Ora torno qui a cercare di sciogliere il morso e codificarlo in un dialogo in cui ognuno possa capire le ragioni dell'altro.

Volevo troppo, lei mi ha voluto dare troppo poco, mi sono fortificato e forse posso ancora fare qualcosa. Forse lei mi vuole ancora.

La mia Italia è quella che amo, l'altra, naturalmente, quella che detesto.

Nella prima ci metto tutta le parti di città storica, della moderna solo quella che ha il coraggio o la dignità di essere qualcosa.

Una mutevole forma urbana che ha espresso caratteri unici riconducibili ad una idea di "Italianità". Ci si può ritrovare in un angolo sconosciuto e sentire di essere nel "Belpaese".

Nella seconda ci metto tutto ciò che è la negazione della prima. La città senza riconoscibilità. La città dormitorio. La città senza forma. La città con una forma posticcia. La città provinciale che scimmiotta le altre per paura di essere sè. La città omologata a tutte le altre città (sfigate) del mondo.

La mia Italia è a Piazza del Campo, naturalmente. La mia Italia è, ovviamente, a Piazza Plebiscito. Entrambe le città che le circondano sono costruite su un sistema di entità urbane: una piazza, delle strade, delle vie principali, delle vie secondarie. Non c'è bisogno di cartelli per sapere dove andare.

L'amore non va d'accordo con la rabbia.

Dialogo è una delle parole chiave di questo lavoro, anzi due dialoghi. Uno legato ai concetti, di cui possiamo parlare; l'altro legato ai sentimenti che non può esprimersi per ragionamenti ma solo per forme. Forme di linguaggi o meglio di giochi linguistici in cui esprimere non è affatto la stessa cosa di comunicare. Esprimere i sentimenti è l'unica vera difesa da ogni forma di alienazione.

Linguaggio è la seconda parola chiave del gioco. Linguaggio è un sistema condiviso di segni attraverso il quale più entità danno vita ad uno scambio di informazioni o di emozioni, o tutti e due contemporaneamente.

Conoscenza è un'altra parola, la terza. Si può conoscere in vari modi, si possono leggere dei verbali o si possono vedere dei film. I primi informano, i secondi (se sono belli) fanno ridere e piangere. Il linguaggio dell'architettura attiene al secondo caso.

Il Dialogo che c'è tra Linguaggio e Conoscenza, è il gioco che mi interessa. Alcuni lo hanno chiamato "Ermeneutica" e sono sembrati noiosi. Oggi, sbattuta la faccia contro la crisi più dura che si ricordi ed all'indomani del "Grande Addormentamento" ci rendiamo conto che a qualcosa serve.

Entra in scena la quarta parola: Architettura, serviva anche Lei, effettivamente, a qualcosa. Era connaturata con la vita dell'uomo sulla terra. Il primo vivente che ragionò scelse la sua grotta per ricoverare sé, la sua donna e i suoi cuccioli. L'Uomo si è dato un abito per più di cinquemila anni, e questo abito, o meglio questi abiti hanno sempre avuto una forma.

L'ultimo grande sarto italiano fu Benito. Dopo di lui ci furono città per un'altra ventina di anni. I sarti attuali, che ormai fanno gli "Stilisti" e mostrano "Concept", ci hanno proposto, una architettura senza forma. Design industriale di oggetto elevato a scala di città; così anziché abitarla la possiamo contemplare! Una strana civiltà che non ha linguaggio, non ha forma, non dà emozioni, non porta conoscenza. Abbiamo sempre una emergente emergenza che ci costringe a sopravvivere a qualcosa senza mai poter "architettare" la nostra vita quotidiana.

Oggi si continuano a manutenere gli edifici storici per i ricchi, si continuano a costruire periferie informi per i poveri e ci si consola con pezzettini griffati, con della tecnologia privata tra della desolazione collettiva, con una lenta fuga dalle città.

La poesia e le speranze dei nostri padri e nonni sono gli ultimi rintracciabili nel tessuto delle nostre città; vado con questo lavoro a cercare le ultime tracce, le ultime forme, gli ultimi fuochi, di una età dell'oro che per ora è finita e che forse i nostri figli sapranno esprimere e reinventare. Mi interessa la forma e il perché di un cornicione, di una finestra, di una balaustra, lo stagliarsi un terrazzo contro un cielo.

Dipingo l'Italia con le materie di Italia: pozzolana romana e marmo bianco carrarese, sabbia di Stromboli e terra di Pordenone. Le darò luce e ombra, forma, colore e materia.

Anche la Pittura ha una sua immanenza ed è sempre andata a braccetto con l'Architettura. Perché le abbiamo fatte smettere?